Sara Sabbatini, cercherò di riversare il pezzetto di sé che ogni persona mi ha lasciato
Grazie per avermi fatto vedere Ostia così diversa da come la percepivo, ma così stranamente mia
Mi è stato chiesto di scrivere. Sono giorni che provo a guardare le foto fatte, cercando di lasciare inciso qualcosa, eppure non ho idea da dove iniziare, se dal primo scatto o da una sensazione provata durante un incontro, in un punto indefinito del calendario del corso. La mia mano trema vicino alla foto del piccolo Simeone e non riesco a trovare il mio inizio. Non so da dove partire. Guardo ancora la foto di quel piccolino che giocava a fare l’indiano.
Credo di aver scelto. Alla fine, ho deciso di partire nel modo più scontato di questo mondo: semplicemente, dall’inizio.
Ricapitoliamo: sono Sara Sabbatini, studentessa del Liceo Classico Anco Marzio. E, nelle righe che seguono, cercherò di riversare il pezzetto di sé che ogni persona mi ha lasciato dentro durante questo viaggio. Chissà se, oltre a scribacchiare qualcosa, non riuscirò anche a far vivere, così come l’ho vissuta io, Ostia, attraverso le storie sussurrate a mezza bocca nel vento o urlate a gran voce sulle onde del mare, incastrate nei rami degli alberi di una pineta e lasciate scorrere tra i mattoni di un muro.
Dietrich Bonhoeffer diceva che il senso morale di una società si misura su ciò che fa per i suoi bambini.
E in questo momento io vorrei scrivere proprio di quello che fa per i bambini di Ostia l’Associazione Manes, che porta avanti il progetto “L’Asilo del Mare”, facendo vivere i bambini al di fuori delle quattro mura di un’aula, a volte troppo strette, insegnando loro a stare in equilibrio assecondando il lento sciabordio delle onde sulla battigia, introducendoli in un mondo dove orientarsi, in ogni suo significato, è sempre più difficile. Credo che durante questo primo incontro mi siano rimasti impigliati addosso i sorrisi di Mirko e Francesca. E continuo a sperare, che quei sorrisi siano il riflesso vivido di quelli dei bambini.
L’entusiasmo dell’archeologa Paola che ci ha accompagnato alla scoperta della Villa di Plinio durante il secondo incontro è stato tremendamente contagioso. Curiosità costante, attraverso i muri saldamente piantati nella terra e tra le piante, aggrovigliate alle mura. E mentre questa esploratrice ci illustrava la sua storia, mi è sembrato quasi di riuscire a vedere meglio la nostra, di Storia. Ostia è anche questo: un inesauribile tesoro.
“Deportazione”. Sento ancora quest’eco risuonarmi nelle orecchie come una cannonata. Il terzo incontro è stato perennemente accompagnato da questo basso, prolungato, rumore di tuono. Ti spaventa. Ti scuote. E gli occhi di Franca, mentre ci raccontava la sua, di storia, mentre ci offriva del succo di frutta in una casa che i più potranno definire semplicemente una baracca, erano pieni di una dignità cercata di estirpare con forza, del coraggio di chi viene dimenticato ma lotta per sopravvivere alla tempesta. Dell’Idroscalo, mi è rimasto incastrato dietro agli occhi il colore del dolore.
Adesso veniamo a Simeone. Troppo piccolo per arrivare senza sgabello alla mensola della cucina, cercando di sgraffignare biscotti. Troppo piccolo per così tanta sofferenza. Troppo piccolo, per smettere di giocare agli indiani nei meandri della Tenuta di Procoio, nascosto agli occhi del mondo dai rami degli alberi, fitti quanto basta per far passare uno spiraglio di luce nel sottobosco. Fin da quando ho sentito la sua storia, da chi continua a combatte per lui, l’ho sempre immaginato come Peter Pan, nella sua Isola-che-non-c’è. Se chiudo gli occhi, posso vedere i contorni definiti della Vela verde posta come suo memoriale. Posso sentire sulla lingua il sapore prepotentemente amaro della violenza.
Ed infine eccolo, il mare. Il suo odore, la sabbia sotto le dita, l’aria, il vento. Quasi impossibile dimenticarsene. Lì la vita è diversa. Si vive assaporando gli attimi, non le ore, affidandosi alle correnti, regolandosi sulle maree e seguendo il corso del sole. Lo sa bene Michele, un pescatore il cui viso risplende ogniqualvolta si trova sulla sua barca. Per lui, la pesca è come una sorgente di felicità senza confini e l’ipnotico scroscio delle onde, la più bella delle sinfonie mai create.
Ma alla fine, la persona che più mi ha dato in questo percorso di scuola-lavoro è stato lei, professore. Grazie per avermi insegnato a prendere in mano una macchina fotografica. Grazie per quando mi hai assecondato, mettendosi a fare il giocoliere con quella sfera di vetro. Grazie per avermi fatto vedere Ostia così diversa da come la percepivo, ma così stranamente mia.
di Aldo Marinelli del 25 giugno 2019