Dina Monesi
Incontro per caso il marito di Dina, sotto le case popolari di Corso Duca di Genova. Dopo aver parlato con lui mi propone di intervistare la moglie "donna piena di ricordi", mi dice. Qualche giorno dopo sono nella loro casa, dove si sente la malinconia dei tempi passati
Mi racconti come la tua famiglia è arrivata qui a Ostia?
Ho origini bolognesi: mio padre aveva idee contrarie al regime e quindi scappò da Bologna mentre mia mamma era incinta del suo primo figlio che comunque nacque a Crespellano. Lui era del 1893 e nel 1922 arrivò qui a Ostia perché mio zio, il geometra Scurani, li aiutò. Andarono ad abitare in un castelletto che si trovava sopra l’attuale Oviesse, su una montagna di sabbia.
Il Castelletto
Tutto intorno c’erano delle case fatte in legno abbastanza rifinite, che chiamavano "baracche": avevano un cancelletto e il recinto. Io sono nata in questa casa nell’aprile del 1933, e sono la quarta figlia femmina, la quinta in tutto. Dopo di me sono nati altri 3 figli, il cui ultimo aveva 16 mesi quando mia mamma morì. Lui a 15 anni mi chiamava mamma: diventò un calciatore giocatore della Ternana, ma purtroppo è morto di SLA qualche anno fa. Mia mamma era nata nel 1899, aveva fatto la terza elementare e sapeva scrivere in un buon corsivo, come si vede dal libretto di famiglia.
Quando lei morì, mi volevano mandare in collegio ma io non ci volli andare, mentre i miei due fratelli più piccoli si: uno andò a Pesaro, l’altro alle Suore che ora sono a Corso Duca di Genova (dove c’è il Giovanni Paolo II) ma allora stavano a viale della Marina, di fronte al Superga. Il più piccolo invece andò a Torvaianica: allora non esisteva la strada litoranea che attraversa le dune, quindi bisognava passare per i Castelli per andarlo a trovare. Poi lo mandarono alla Gioventù Italiana, la GIL, questa qui vicino. Erano tutti prati e macchia mediterranea: c’erano due montagne alte alte. La GIL prima era una scuola militare, poi diventò un collegio comunale: era enorme e ci stavano tante aule.
Dove avete abitato a Ostia?
I miei genitori sono rimasti nel castelletto per circa 8 anni, finché mia mamma prese il portierato di una casa in via Claudio, mentre mio padre lavorava al Municipio. Mio padre non si era mai iscritto al partito fascista, ma aveva un buon rapporto con tutti. D’inverno attaccava la caldaia per i termosifoni in Municipio: arrivavano grossi camion che scaricavano il carbone (c’è ancora uno sportello da dove entrava il carbone).
D’estate invece infilava i pali nel mare dove erano ancorate delle funi su cui ci si attaccava per fare il bagno durante i giorni di mare mosso. Mi piaceva tanto quando arrivavano le onde grosse. Da via Claudio io andavo in giro per Ostia anche da sola. Mi ricordo che dicevo a mia mamma: “posso andare a prendere la bomba?”, e andavo sotto i portici a prendere il krapfen, in via della Stazione Vecchia. Avevo circa 4 anni e mia mamma mi dava i soldi: Ostia era molto tranquilla e passando sopra i marciapiedi raggiungevo il negozio. Li mi riconoscevano tutti e vedevo sempre questo "missile" che buttava le bombe.
Li vicino c’era una gelateria e anche il ristorante Sperti. A Ostia ci conoscevamo tutti, saranno state 3000 persone comprese quelle del Pescatore. Infatti alla fine di Via Corso Duca di Genova avevano costruito i Cento Villini dove c’era anche casa di mia zia. Dopo andammo ad abitare nel posto più bello di Ostia: in via Lucio Coilio insieme a lei. Qui lavavo le scale e aiutavo i miei con questa piccola entrata.
Quando vi siete trasferiti in questa casa?
Nel 1943 ci siamo trasferiti qui a Corso Duca di Genova, nelle case popolari costruite nel 1926 per i gerarchi fascisti ma mai veramente abitate da loro.
Ma già l’8 settembre di quell'anno fummo sfollati a Roma fino a al giugno 1944. Questo perché c’era pericolo che gli Americani sbarcassero a Ostia e quindi su tutto il lungomare i Tedeschi avevano messo dei grossi blocchi di cemento armato. Andammo via da casa portandoci le nostre cose e i materassi, ma purtroppo i mobili no e quando tornammo non trovammo più nulla. C’era anche un comò che a mia mamma piaceva molto, era bellissimo, ma quando tornammo anche quello era sparito. Ci misero in una scuola di Via Galvani, al Testaccio vicino ai pompieri. In ogni classe ci mettevano più famiglie. Salivamo al Testaccio e vedevamo le contraerei di Anzio e aspettavamo che gli Americani finalmente arrivassero. Avevamo una fame da morire: tuttora non mangio i piselli e il riso perché mi ricordo quando ci dividevamo le razioni che mia mamma trovò una volta in mezzo alle macerie. Prendevamo i legnetti al cimitero cattolico inglese e facevamo il fuoco per cuocerli. Di fronte alla scuola c'era un panificio: mi ricordo ancora l'odore del pane appena fatto e la voglia di mangiarlo. Purtroppo però non c'erano i soldi ed era terribile non poterne addentarne neanche un pezzo. Circa 15 anni fa, per puro caso mi sono ritrovata di fronte a quel panificio: sono entrata e anche se non ne avevo bisogno ho comprato qualche panino per me e per mia nipote. Una piccola soddisfazione dopo tanti anni (n.d.r. Dina si commuove al ricordo di questo momento).
Finita la guerra cosa è successo?
Arrivarono gli americani ed il 4 giugno quelli da Cassino si incontrarono con quelli di Anzio. Siamo poi tornati a Ostia perché agli americani serviva la scuola dove stavamo: ci portarono con i loro camion, quelli col telone verde e coi i soldati. Dentro la casa non era rimasto più nulla, tranne un grosso armadio che non erano riusciti a portar via. Il dietro dell’armadio non c’era più e lo attaccammo alla parete. Dormivamo sui nostri materassi che erano di piuma.
A Ostia però c'era il pericolo delle mine e quindi stavamo sempre a casa. Quanti bambini son morti saltati con le mine! Ancora per Ostia c’è qualcuno che zoppica perché ha perso una gamba.
Poiché non c'era l'acqua, uscivamo una volta al giorno e facevamo il carico ad una pompa che stava all’altezza del vecchio cinema Superga, a viale della Marina, vicino alla tintoria Pietrobelli. Facevamo sempre la stessa strada per evitare le mine.
Una volta a settimana, io e mio fratello andavamo a Roma a piedi perché a Ostia non c’era nulla. Ci mettevamo tre ore per arrivare nella zona del gazometro percorrendo la via Ostiense. Qui c‘era qualche negozio aperto e prendevamo il pane e la pasta. Non mi ricordo se i soldi ce li mandava mia zia, morta a 104 anni, rimasta vedova perché il marito era morto a Bassano del Grappa durante la prima guerra mondiale. Era rimasta sola con la figlia e si trasferì a Bologna. Qui si risposò con un Sutter, la grande famiglia della cera: aveva un palazzetto al centro di Bologna del 1200 e prima di morire vendette tutto e si trasferì in una casa di cura; quando morì ci diede l’eredità. Se incontravamo qualcuno quando tornavamo da Roma a piedi potevamo chiedere un passaggio. Ma mio padre ci diceva: se sono inglesi accettatelo ma se sono americani no, perché per lui gli americani erano balordi mentre gli inglesi erano signori.
Per circa un anno abbiamo fatto questi viaggi per Roma; poi hanno messo dei camioncini in quanto la stazione ancora non era agibile. I camioncini avevano una scaletta e salivamo su dove si trovavano delle panche: si pagava il viaggio. Poi aprì un presidio ad Acilia, dove c'era un casale con tanto prato e mio fratello andò a lavorare per gli inglesi che lo gestivano. Quindi per noi era più semplice arrivare a piedi ad Acilia. A volte incontravamo qualcuno che aveva il cavallo e il carretto e allora ci dava un passaggio. Per arrivare ad Acilia era tutta sabbia e pineta: pensi che noi dalla finestra della cucina della casa dove stiamo ora vedevamo gli scavi di Ostia Antica. Quando iniziarono a fare gli spettacoli nel teatro romano noi vedevamo le luci.
Che ricordi hai di Ostia di quel periodo?
Il primo negozio ad aprire ad Ostia fu Ragani, in piazza della Stazione Vecchia, dove ora c'è la tabaccheria. Prima faceva anche da drogheria. Vendeva tutto tranne pasta e pane. Tutta Ostia andava a comprare li. Loro erano siciliani ed erano una brava famiglia. Avevano dei prezzi imbattibili: tutto costava una lira in meno perché puntavano sulla quantità. Qui ci ha lavorato anche una mia sorella che faceva la commessa fino a quando si è sposata. Il pane lo prendevamo al forno Di Grieco (Via Aldobrandini 21) che prima si chiamava De Renzis. Qui portavamo anche le nostre cose che cucinavamo a casa ma che ci permettevano di cuocere nel forno a pochi soldi. Mi ricordo che portavo una teglia coperta da un canovaccio: attraversavamo tutta la zona di sabbia e macchia e quando arrivavo al forno mi davano un numero a me e uno lo mettevano nella teglia così quando tornavo dopo 1 ora sapevano quale era la mia. Portavamo pomodori al riso ma soprattutto le patate, me lo ricordo anche perché qualche volta al ritorno me ne mangiavo qualcuna prima di arrivare a casa.
Qui sotto questa casa invece c'era un negozio di vini e olio: arrivava da Frascati una carrozza con il cavallo, con tutte le botti sopra. E poi c’era quello del ghiaccio: aveva un triciclo e portava tutte colonne di ghiaccio. Con un punteruolo rompeva il ghiaccio: chi aveva la ghiacciaia lo comprava e così poteva conservare i cibi freschi. La suocera di mia sorella ne aveva una tutta foderata di ghisa e fuori era tutta di legno.
A 11 anni per circa un anno vendetti i giornali dell’Unità in giro per il lungomare e a piazza Anco Marzio. Io sono molto timida quindi non facevo lo strillone ma avevo sul braccio questi giornali e siccome ero caruccia qualche giornale lo vendevo. Mi ricordo anche che andavano all’officina meccanica: sentivamo la sirena che indicava la fine dell’orario di lavoro e da qui a piedi non ci voleva nulla ad arrivare.
Ho dei ricordi anche dello Stabilimento Roma: in quel periodo abitavamo a via dei Fabbri Navali e mia madre mi ci mandava a vedere. Vedevo arrivare macchine bellissime, persone vestite da sera. Ho dei ricordi bellissimi di quei momenti, quasi fossimo in un film di Fellini. Quando il duce doveva venire al Roma, mio padre veniva sorvegliato da qualcuno in quanto sapevano che era un sovversivo avevano paura che potesse fare qualche gesto pericoloso. Conoscevo un uomo che viveva nel palazzo dove mamma era portiera, che lavorava come cameriere al Roma: era sempre tutto impeccabile perché li tutti dovevano essere perfetti. Così come era Ostia: era tutta pulita, i lampioni erano bellissimi ed era pieno di giardinetti. Ora invece non riesco a guardare per terra: le strade e i marciapiedi sono indecenti.
Andavo al mare dove vado anche ora, proprio qui di fronte. Mi ricordo che raccoglievo i gigli di mare e mi ricordo anche i bruchi che mangiavano questi gigli. Adesso per entrare nello stesso stabilimento pago 10 euro. Tanta gente veniva al mare: ogni dieci minuti arrivava un treno alla stazione. Mio marito Emanuele lavorava alla stazione e si ricorda che passavano con un serbatoio con l’acqua fredda e costava 1 lira il bicchiere. Anche io andavo alla stazione da via Claudio e mi piaceva vedere le persone arrivare da Roma: quanto era bella la stazione che era uguale a quella di San Paolo. Incontro ancora la signora Bigliazzi che è la figlia dei proprietari del bar della stazione di Ostia prima del bombardamento. Spesso ci incontriamo al parrucchiere Morandi. Lui è nipote della proprietaria dell’albergo Belvedere, quando ancora non era come lo vediamo ora ma una baracca come nel far west. Mi ricordo ancora l’inaugurazione dell’albergo: ci andai con mia sorella che era 10 anni più grande di me, sarà stato il 1940.
Quando abitavamo sempre a via Claudio, avevamo come vicini una coppia che non aveva figli. Noi eravamo tanti figli, tutti belli e fisicamente alti. Mia sorella era boccolosa e riccia: stava sempre in casa di queste persone che l’hanno come adottata. Loro avevano parecchi soldi. Non so come andarono ad Addis Abeba e si portarono mia sorella, non so con quali permessi. Ci mandarono una foto in cui mia sorella era abbracciata ad un neretto: allora non li avevamo mai visti.
Dove adesso c'è Ferrantelli (Via Claudio) prima c’era un palazzo della Sip, che prima si chiamava TE.TI. Mia mamma dopo la guerra, perso il portierato, per racimolare i soldi prese in gestione per qualche anno i telefoni, che prima a Ostia non esistevano. Si doveva chiamare qui dicendo che si voleva parlare con tale persona a tale ora e a tale giorno. Io andavo in bicicletta a consegnare un biglietto e queste persone poi si presentavano quel giorno per ricevere la telefonata. Avevamo tante cabine. Dove c'è ora il palazzo di Loconte c'era la gelateria Fassi. Lì c'era il collegio degli ebrei e quindi sentivo nel cortile cantare le loro canzoni: me le ricordo ancora perché ho una buona musicalità.
Nel 1957 mi sono sposata a Regina Pacis e abbiamo fatto il pranzo all'Elmi, perché c'era la Nannina come cuoca.Sono 60 anni che ci conosciamo io e mio marito Emanuele.
Con mio marito all'inizio abbiamo abitato a Piazza Anco Marzio sopra alla Casina Fiorita, al numero 13. Stavamo all’ultimo piano e dal balcone vedevamo la punta di Anzio: era bellissimo.
In piazza la sorella di Balini vendeva le cozze nel casottino; mi ricordo anche Lucherini che aveva un negozio che vendeva giornali, a fianco della Casina Fiorita, di fronte a Sisto. Si andava anche al mercato, che prima era a Piazza Tor San Michele, dove compravamo anche il pesce. Qui ho anche abitato, nel palazzo che fa angolo sulla stradina di Granito di Belmonte. Dal terrazzo vedevamo l’arena del Superga e tutte le sere c’era il cinema.
Questo prima di tornare ad abitare a Corso Duca di Genova, quando morì mio padre. Con lui viveva il mio fratello maggiore che aveva avuto problemi di attacchi epilettici: quindi siamo venuti qui ad abitare tutti insieme per 21 anni. E’ stato molto duro: mi ha fatto penare tantissimo.
Il marito Emanuele mi ha raccontato nella prima parte della mattina come si è conosciuto con la moglie. Si sono incontrati a Tunisi dove lui viveva. Il papà era a capo del personale di una grossa azienda francese nel ramo dell’agricoltura. Vivevano bene: avevano la macchina, giocava a Tennis con Nicola Pietrangeli, frequentava la scuola che frequentò anche Claudia Cardinale e la cugina lavorava presso l’ambasciata italiana dove aveva modo di incontrare tante persone. Qui ha incontrato appunto Dina, che era venuta in nave da Roma via Palermo, per accudire i figli della sorella più grande che aveva sposato un uomo che lavorava a Tunisi. I genitori di Emanuele non erano molto convinti del fatto che il figlio dovesse andare a Roma per sposare Dina ma lui gli lanciò una sfida: vedrete che ce la farò e ve lo dimostrerò. Appena arrivato a Ostia subito gli si presentò una realtà differente da quella che aveva vissuto a Tunisi. Prima di tutto prese la terza media in Italia, in quanto aveva quella francese presa a Tunisi, ma non conosceva alla perfezione l’italiano. Nel frattempo fece il concorso come macchinista e iniziò a viaggiare sui treni che andavano a Fiuggi da Roma, ma la moglie Dina dopo qualche anno si lamentò dei turni e degli orari. Quindi Emanuele fece le scuole serali per prendere il diploma da Geometra e poter partecipare ai concorsi come responsabile nelle stazioni. E così fu.
Intervista rilasciatami di persona il 12 agosto 2013
di Aldo Marinelli del 17 ottobre 2016